I detti popolari, il dialetto locale, i racconti della vita di una piccola frazione vivevano nelle memorie degli anziani del posto. Ma il tempo scorre e per non dimenticare vogliamo creare una piccola finestra che si affaccia nel passato per scoprire come si viveva tanti, tanti anni fa…

“La Bagiana”

Anche quest’anno l’orto ci ha regalato una abbondante produzione di fave e non potevo non postare la ricetta della “Bagiana”. Esistono varie versioni. Io la propongo senza l’uso delle bietole e senza pancetta. Potremmo chiamarla un piatto vegetariano. Gli ingredienti sono:

Ingredienti:

500-600gr di fave fresche
4 pomodori ben maturi e grossi
3 spicchi d’aglio
un bel mazzo di finocchio fresco
1/2 bicchiere di vino bianco
olio e.v.o. q.b
sale

Versare dell’olio in padella. Sbucciare l’aglio e metterlo a soffigere. Dopo inserire il finocchio fresco, lavato e tritato grossolanamente e lasciarlo insaporire all’aglio.

Aggiungere a questo punto le fave, precedentemente lavate, e farle insaporire al composto. Aggiungere dopo il vino e farlo sfumare.

Lavare i pomodori , sbucciarli e tritarli grossolanamente. Aggiungerli alle fave.

Salare. Lasciare cuocere lentamente. Il tempo varia a secondo della durezza della fava. Se la fava è tenera in un ora si cuoce.

Questo è il risultato finale. Piatti poveri della cultura contadina ma che saziavano le pance. Una volta in campagna non esistevano frigoriferi o congelatori. Le fave venivano essiccate per poterle usare in inverno. Se si usano fave secche vanno prima messe in ammollo come si fa con i fagioli secchi. Io personalmente ho fatto vari sacchetti e poi messi nel congelatore. In ogni caso, Buon Appetito!

Maròn – Vita di Tommaso Isidori (Parte Terza)

LA CASA

La Casa di Montescatto

Entrando dal portone si aveva di fronte la scala che portava al primo piano e alle camere da letto. Al piano terra, a destra della scala, c’era la cucina con un lavabo (el sciacquaton) e il camino, mentre a sinistra si apriva una saletta riscaldata da una stufa, “La Sovrana” utilizzata anche per cucinare.

Non c’era né bagno, né acqua corrente.
Non sappiamo in che anno il bisnonno si trasferì. Però, in questa casa, nel 1927, nacque il secondo figlio di Tommaso, Domenico. Mio nonno.

E LA VITA SCORREVA……….

La vita di tutti i giorni si divideva tra i lavori di campagna e quelli di casa.
I miei bisnonni, come tutti da quelle parti, avevano gli animali da cortile e le pecore, che andavano accuditi ogni giorno. E i bambini non erano certo esentati dal lavoro.
Durante un inverno nonna Giulia disse a Domenico –“Menculin va a prenda una fascina di legna per accenda il foc?”. Lui era piccolo e fu molto contento di poter eseguire quella piccola missione. In mezzo alla neve trovò un albero di gelso e con il falcino ne tagliò alcuni rametti, radunandoli in una fascina. Tuttavia, tornando a casa, fu scorto dal proprietario dell’albero, che era anche il padrone di molti campi e boschi della zona, quindi era molto facoltoso. Questi rincorse mio nonno fino a casa per bastonarlo e riprendersi la fascina.





Il piccolo Domenico non credeva certo di fare una cosa sbagliata.

La Scuola

In questa sperduta comunità di campagna, anche senza strade “comode”, esisteva la Scuola Pubblica. Mio nonno e mio zio andavano a scuola alla mattina.

Mio nonno frequentò la scuola fino alla 3° elementare. Amava la matematica e fino a tarda età continuò a “far di conto” a mente. Odiava invece le lezioni di italiano e quando a scuola doveva fare un tema o leggere, chiedeva alla maestra di andare a fare un “goccio” (la pipì) fuori in campagna, per poi fuggire e non farsi più trovare per tutta la mattinata.

Da ragazzo fu mandato ad imparare il “mestiere” da Ettore d’Brinon che faceva il falegname. Imparò a costruire le botti di legno per il vino, artefatti non facili da realizzare. Tutte le doghe dovevano coincidere perfettamente per poter stagnare al meglio. Sapeva anche costruire le finestre per le case con i relativi scuroni e persiane. Domenico era bravo in questo mestiere, ma non gli andava molto a genio perché era un lavoro davvero faticoso.

Anche il fratello Ferdinando, quando aveva 15 anni, fu mandato ad imparare il mestiere da sarto a Pergola da un certo Valentino. Era bravo come sarto, ma anche a lui non piaceva quel mestiere: rifiutò quindi di trasferirsi a Milano o Torino, dove aveva trovato lavoro in qualche sartoria.

 Era il 1936 e la guerra stava per entrare nella storia della mia famiglia.

Bibliografia

Foto stufa a legna La Sovrana (trovata sul Web)
Foto b/n bambino da wikipedia-albero degli zoccoli
Foto dipinto “Boy at School” di Jim Daly (trovata sul Web)

La Pasqua in campagna….

Nel lontano mondo contadino le feste religiose erano molto sentite e rispettate.
Nella settimana precedente la Pasqua il parroco passava in ogni casa per benedire le famiglie e sul tavolo venivano poste delle uova, che il prete aspergeva con l’acqua santa.

Quest’ultime venivano poi consumate, sode, alla mattina del giorno della Resurrezione.
Le feste venivano santificate anche in cucina, realizzando piatti tipici legate all’evento.
Tra il Giovedì Santo e il Venerdì Santo ogni famiglia preparava “la Crescia di Pasqua” (chiamata così perché “cresceva” e ricordava la Resurrezione del Cristo), una tipica torta al formaggio e uova a forma di panettone. Era un procedimento lungo perchè si usava come lievito “el forment“, un impasto acido che si ricavava dal pane.

El forment” veniva sciolto nell’acqua il giorno prima e veniva impastato con poca farina e lasciato lievitare tutta la notte. C’era una religiosità nel preparare l’impasto della Crescia. Farina, lievito, uova, formaggio grattugiato (una volta si usava solo il pecorino, perché tutti facevano il formaggio in casa), strutto, olio, sale e pepe. Questi erano gli ingredienti che, mani sapienti, impastavano creando un’armonia di sapori e odori.
Venivano posti in contenitori alti di alluminio, unti con lo strutto e messi a lievitare nel posto più caldo della casa (le case di una volta erano piene di spifferi).
Alcune famiglie mettevano le Cresce a lievitare dentro “el pret“, sotto le coperte dei letti.
Si preparavano tante Cresce che poi venivano regalate a parenti e amici.
Quando l’impasto era “cresciuto” fino ai bordi del contenitore era ora di infornare.

Si accendeva il forno a legna scaldandolo, piano piano, fino a quando i mattoni non diventavano bianchi. Le vie del paese erano piene di odore di formaggio, che sprigionavano le cresce mentre cuocevano. Era dura non mangiarle, visto che si rispettava la tradizione di mangiare di magro durante la settimana santa.

Al sabato le donne preparavano il pranzo di Pasqua: Vincisgrass, gnocchi al sugo di coniglio e agnello arrosto.

I Vincisgrass
Maria, di 91 anni, prepara ancora oggi gli gnocchi.

Finalmente arrivava la Pasqua!
La mattina era piena di emozioni!
La colazione era ricca. Si gustavano i ov bnedett insieme alla Crescia e il salame.

In seguito tutta la famiglia si recava in chiesa per la messa Pasquale.
Continuava l’aria di festa a pranzo dove una tavola imbandita di cose buone attendeva i suoi commensali.

L’emozioni che si respiravano in quel mondo antico non è più possibile trovarle nei nostri giorni di corse e stress.
Le case dei contadini erano povere, ma aperte a tutti. Si aveva poco, ma si condivideva tutto e le feste servivano a dimenticare la fatica del lavoro agricolo.

BUONA PASQUA!

Foto: bianco/nero vitapoverablogstoriediterritori

Foto dei piatti gentilmente concesse da:
Alesi Graziana
Marchetti Sara

Ermo

“La Trippa del porcell”

Nei mesi di Dicembre, Gennaio e Febbraio, quando il freddo era molto intenso, si assisteva alla tradizionale uccisione del maiale, che era stato allevato con molta cura per tutto l’anno dalle famiglie contadine. Era una necessità perché la sua carne avrebbe dato sostentamento a tutta la famiglia per un intero anno.
La macellazione avveniva a rotazione nel paese. Le frattaglie venivano divise tra gli abitanti del posto, sapendo che, quando avrebbero macellato a loro volta i propri maiali, avrebbero avuto di ritorno una parte.
Vi erano tante ricette per trasformare le frattaglie in piatti gustosi.
Ora qui vi riporto la ricetta della “trippa del porcell”.

Oggi non si riesce più a trovare la trippa del maiale. Quasi non si usa più macellare in casa. Allora ho utilizzato la trippa del vitellone. Il procedimento è lo stesso che si usava per il maiale. Se siete più fortunati di me e riuscirete ad avere la materia prima, allora buon appetito!

Ingredienti per 2 persone:
600 grammi di trippa
1 cipolla grande
1 costa di sedano grossa
2 carote
1 chiodo di garofano
1 foglia di alloro
1 stecca di cannella
3 o 4 rametti di “persichina”(la persichina è un tipo di origano maggiorana tipico della zona appenninica diversa da un origano comune, ne conserva le proprietà e parte dell’aroma)
una scorza di limone
200 gr. di pelati (se vi piace più bianco metterne 150gr)
1/2 bicchiere di vino bianco

Tritate cipolla, carote e sedano grossolanamente e mettete il tutto
in una padella con olio e un goccio
di acqua. Fate soffriggere per 7 o 8
minuti.

Aggiungete la trippa e fatela saltare a fuoco vivace per 5 minuti. Sfumate con il mezzo
bicchiere di vino e mettete il pomodoro macinato precedentemente.

Salate e aggiungete per ultimo l’alloro, la persichina, il chiodo di garofano, la cannella e la scorza del limone. Lasciatela bollire con il coperchio per circa 7 ore, avendo cura di rimestare ogni tanto e aggiungere un pò di acqua calda se è necessario. Pepe a piacere.

I piatti di una volta non avevano fretta di essere preparati (come purtroppo oggi si fa) ma vi assicuro che chi ha assaggiato questa pietanza si è leccato veramente i baffi!
BUON APPETITO!

La “Pasquella”

Giulia Marchetti

La “Pasquella” è un tipico canto questuante dell’Epifania e le sue origini sono così antiche che si sono perse le tracce. Si canta in Romagna, nell’Umbria e nelle Marche. Ci sono anche versioni nella regione della Toscana. Erano contadini, armati di strumenti musicali, che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio andavano di casa in casa e chiedevano il permesso di cantare al padrone e intonavano stornelli in dialetto per augurare pace, serenità e salute. In cambio, il padrone, doveva offrire vino e uova. Se non lo faceva, veniva augurato a lui e alla famiglia ogni dispiacere!
Ci sono tante versioni di questo canto. Qui riportiamo quello che cantava nonna Giulia:

L’ANNO NUOVO E LA PASQUELLA

Ringraziamo la padrona
della roba che ci ha gradito
vi faremo sempre onore
Buona Pasqua del Signore.

In questa casa
c’è una sposa
fresca e rossa come una rosa
rilucente come una stella
l’anno nuovo e la Pasquella.

In questa casa
c’è una vecchia
tutti dicono che è molto avara
bello e presto verrà la bara
che la viene a portar via
Anno nuovo Epifania

Siam venuti dall’Oriente
per veder Gesù Bambino
fresco, rosso e ricciolino
Buona Pasqua e Epifania

Spalancate le vostre porte
per vedere la compagnia
per vedere la compagnia
Buona Pasqua e Epifania

Se ci date o non ci date
fate presto e non tardate
che dal ciel casca la brina
e ci fa nì la tremarella
l’Anno novo e la Pasquella

Daje daje ognun si stufa
dacce da beve un goccett
s’è asciuttata la favella
s’è asciuttata la favella
l’Anno Nuovo e la Pasquella

In questa casa c’è una sposa
tutti dicono che è tanto bella
andate giù al pollaio
e prendete una gallinella
l’Anno nuovo e la Pasquella.

…………………………………………………..

“Il Natale di una volta”

Alla vigilia di Natale si andava a cercare un grosso ciocco di legna da ardere che doveva durare fino all’Epifania. Dopo la Befana se il ciocco non era arso del tutto, era posto ad incastro nell’oppio che era un albero dove veniva fatta arrampicare la vite. Questa tradizione veniva eseguita perché credevano che avrebbe protetto la vite dalla grandine.

Il presepe non si usava costruirlo in casa ma solo nella chiesa del paese, dove, alla Messa di mezzanotte, i bambini recitavano la poesia di Natale davanti al bambino Gesù che veniva poi baciato su un piede da tutti i presenti.

Non esistevano i regali, né l’albero di Natale. I bambini stavano raccolti intorno al fuoco dove i nonni raccontavano storie incredibili. Assicuravano che il ciocco di Natale era magico perché, battendolo tre volte, regalava castagne che comparivano magicamente davanti all’aiola. In realtà erano i grandi che, senza farsi vedere, le lanciavano.
Si respirava ugualmente aria di Natale perché si mangiava meglio. C’era il brodo di gallina dove si facevano cuocere i passatelli; si mangiava il lesso e anche l’arrosto misto.

Alla sera si usava fare la veglia presso le famiglie che offrivano castagne, lupini e vino che venivano consumati mentre si giocava alle carte.

Ma, ahimè, i soldi non c’erano e quando si giocava a sette e mezzo si puntavano i bottoni!

Il Natale di una volta 1934 di Isidori Domenico

Se ‘l Mont fa la braca……..

Gli inverni a Montescatto erano veramente freddi e nevosi e certamente le case non avevano i confort delle abitazioni di oggi. I contadini non avevano l’abitudine di fare la legna nel periodo primaverile ma andavano a tagliarla durante l’inverno. Era bagnata e non ardeva nel camino, unica fonte di riscaldamento.
Per capire come sarebbe stato l’inverno i contadini guardavano la prima neve che cadeva sul monte Catria e c’era un detto che recitava così:

“Se ‘l Mont fa la braca
vend el mantell e compra la capra.
Se ‘l Mont fa ‘l cappell
vend la capra e compra ‘l mantell”

Quindi se sulla cima del Catria faceva il cappello voleva dire che sarebbe stato un inverno nevoso. Al contrario sarebbe stato una stagione mite.
Questa è la foto della prima neve che è caduta sul Catria quest’anno e come si vede ha fatto “la braca“. Sarà un inverno mite?
Vedremo….

L’erba di campagna…..

Tarassaco Dente Leone
El grugn’ (cicoria-tarassaco)

In primavera si trovano tante varietà di erbe spontanee buone da mangiare. Ma anche in autunno, specialmente in questi giorni “stranamente” caldi, riusciamo a trovarne qualcuna. Nella foto si vede il classico Tarassaco o Dente di Leone chiamato in dialetto Grugn’.

Grugn’-Erba dell’Asino (cicoria)
Grugn’-Riccio (cicoria)

Tutte queste erbe si chiamano in dialetto Grugn’ e fanno parte della famiglia della cicoria. Il Grugn’ Riccio sta diventando raro trovarlo. La sua caratteristica è che quando lo si recide si chiude come un riccio.
E’ difficile sbagliarsi nel raccoglierle. Hanno foglie frastagliate e la loro caratteristica è che sono rasenti alla terra e per raccoglierle si deve usare un coltello appuntito per poter affondarlo nel terreno e reciderle dalla radice.

Questa erba si chiama in dialetto “Gruspign” (Grespino o Crespigno famiglia delle Asteraceae) e sembra simile al Grugn’ ma se osservate meglio le foglie sono molto più simili al cardo che ha foglie più spesse e spinose. Il fusto non rimane a rasoterra come la cicoria ma rimane sollevato.
Vi sono altre specie di erbe commestibili come la Pappatella (papavero)

o la Sprania ma nascono in primavera e di questi tempi non si trovano.
Raccogliere l’erba di campo è piacevole perché si sta all’aria aperta ma non è tanto bello “capare”, cioè pulire l’erba dalla terra ed erbaccia che si raccoglie quando si taglia. Dopo aver pulito la verdura, si recavano alla fonte per lavarla con l’acqua corrente. Ma non era mai “perfettamente” pulita.
E per questo le donne di campagna, dopo aver cotto l’erba, la portavano a tavola e dicevano:

L’erba di campagna
se capa mentre se magna

I piatti di una volta: i’ovi sal fnocchi

uova finocchio selvatico

Gli abitanti del posto cucinavano piatti gustosi con semplici ingredienti che trovavano in natura. Questa ricetta si può realizzare in questo periodo perché ancora troviamo i pomodori negli orti e il finocchio selvatico sta rinascendo dopo l’estate.

Ingredienti per 2 persone

2-3 spicchi di aglio
Un bel mazzo di finocchio selvatico tenero
4 pomodori grossi e maturi o 300 gr. di pelati
4 uova (due per persona)
Olio e sale q.b.

Preparazione

1. In una padella versate l’olio e fatevi soffriggere gli spicchi di aglio sbucciati. Consiglio di fare dorare l’aglio a fuoco spento dopo che l’olio si è scaldato.

2. Lavate e tritate il mazzo del finocchio selvatico. Riaccendete il fuoco sotto la padella e aggiungete il trito. Fate cuocere per circa 10 minuti.

3. Aggiungete i pomodori tritati o passati. Aggiungete il sale, mettete un coperchio e lasciate cuocere a fuoco basso per circa 40 minuti (o fino a quando il finocchio non è cotto).

uova finocchio selvatico

4. Togliete l’aglio e rompete un uovo alla volta direttamente in padella. Salate le uova. Mettete il coperchio e lasciate cuocere fino a quando le uova non diventino sode. (foto)

5. Servite le uova nel piatto insieme al sughetto e il finocchio.

Buon Appetito!

Marón – Vita di Tommaso Isidori (Parte Seconda)

LE NOZZE

Maròn e Giulia si sposarono probabilmente a Drogo il 4 Aprile 1921 con una cerimonia semplice, di campagna.

Matrimonio di Giulia e Tommaso

A quei tempi non si usava il classico vestito da sposa: si cuciva un vestito nuovo e un “zinàl”, una sorta di grembiule che copriva tutto il corpo, da quando si entrava nella casa della suocera. Non si usava nemmeno fare il viaggio di nozze. Ma Giulia e Tommaso lo fecero eccome, andando fino alla spiaggia di Fano a dorso di mulo!

fano arco augusto
Giulia e Tommaso a Fano, a dorso del mulo!

LA VITA insieme

I due sposi andarono a vivere nella casa del padre di Marón, a Ca’Betto. Tommaso lavorava come boscaiolo e bracciante in primavera e estate, mentre in autunno e in inverno si dedicava alla ricerca del tartufo.

Una zona particolarmente ricca dei pregiati funghi era quella di Sassoferrato. Per raggiungerla Marón partiva con il suo cane alle quattro del mattino, imbracciando la sua fedele “roscella”, la tipica vanghetta dei cercatori di tartufo. Una volta arrivato alla stazione di Pergola prendeva il treno in direzione Sassoferrato.

  • cercatore tartufi
  • vanga tartufi

In un giorno poteva percorrere dai 30 ai 40 km a piedi, compreso il viaggio andata e ritorno da Montescatto. Come vi ho detto, era un uomo forte e instancabile: al suo rientro Giulia gli diceva sempre: “Sciatón!” ovvero uno che fatica da morire.

La bisnonna lavorava invece in casa come sarta ed era molto brava. Uomini e donne venivano da lontano per farsi cucire i vestiti da lei. Giulia usava una macchina da cucire a pedale tedesca, la Dürkopp acquistata di seconda mano. Giulia cucì sempre con questa macchina, fino all’ultimo. Tra le tante cose che realizzava c’erano anche materassi di lana, guanciali e “imbottite”, ovvero trapunte di lana.

Giulia alla macchina per cucire
  • macchina da cucito
  • macchina da cucito

Le ragazze di vari paesi andavano da lei per imparare il mestiere. A quei tempi le donne dovevano saper fare tante cose, tra cui anche confezionare vestiti: i vestiti già pronti potevano permetterseli infatti solo le famiglie ricche.

Verso la fine del 1921 nacque il loro primo figlio che chiamarono Ferdinando. Il bisnonno sentì dunque l’esigenza di avere una casa tutta loro e decise di acquistare un rudere sotto quella dei suoi genitori.

Iniziò a ristrutturarla insieme al muratore “Checch” di Monte Gherardo. Ricostruì tutti i muri (ce n’erano solo due e parzialmente crollati) cavando la pietra dal “Foss d’Gagialeta” e trasportandola con un biroccio preso in prestito. I “coppi” per i tetti (le tegole), i mattoni per i muri, i “madón” per i pavimenti e le “pianell” per i soffitti (i vari nomi dialettali indicano tipi diversi di mattoni) venivano realizzati dai “Fornaciari”, ovvero i proprietari della Fornace di Tarugo. Per murare usarono la “terra bianca” e non il cemento in quanto non era reperibile in loco. Per intonacare usarono la “calcina” prodotta localmente. Le finestre e il portone, probabilmente, furono realizzate da Ettore d’Brinon (famoso per aver mangiato un etto di pepe per scommessa).

montescatto disegno
Disegno del paese di Ca’Betto, come era una volta. A sinistra la casetta gialla di Tommaso.

Alla fine il bisnonno realizzò una casetta semplice e bella. A quel tempo nel paese era considerata una casa ”moderna”…. [continua nella parte terza].